giovedì 20 novembre 2008

Numeri che non si possono ignorare


La violenza in Messico non sembra cessare e il numero di morti, vittime dei cartelli della droga, radoppia di giorno in giorno. La criminalità organizzata nella scorsa settimana si è infatti portata via altre sette vite, due fra queste nello stato di Michoacán nell'est del paese, le altre cinque a Tijuana nella Bassa California. Le prime due vitteme sono state uccise nel centro di Pátzcuaro, una delle località più turistiche di Michoacán. Gli altri 5 omicidi sono avvenuti a Tijuana e i corpi sono stati ritrovati in diverse parti della città con evidenti segni di tortura e con mutilizioni.
A Ciudad Juárez nello stato di Chihuahua, a nord del paese, sono stati ritrovati i corpi senza vita di dieci persone, anche in questo caso sui corpi erano evidenti i segni di tortura e su uno di essi è stato ritrovato un biglietto con la frase "carnitas para los marranos de la Línea y los Aztecas" .

Si presume che gli omocidi di Ciudad Juárez siano stati organizzati dal cartello di Sinaloa contro cellule di sicari dei rivali del cartello di Juárez.
Il cartello di Sinaloa, guidato da Joaquín "Chapo" Guzmán, contende al cartello di Juárez, guidato da Vicente Carillo, detto "El Viceroy", il monopolio della droga nel territorio, questo ha dato vita a una guerra che durante il 2008 ha fatto, solo nel territorio di Chihuahua, 1500 morti.

Questi numeri si riferiscono solo a una parte delle vittime del narcotriffico, che nel 2008 ha provocato in tutto il territorio messicano 4500 omicidi, una vera e propria guerra sotterranea contro cui il governo federale non riesce a prendere misure efficaci.

La scelta da parte del governo di mettere in campo 36.000 militari si è infatti dimostrata quasi inutile, soprattutto a causa della corruzione, altra grande alleata del narcotraffico. Solo la settimna scorsa i federali hanno arrestato 21 agenti di polizia municipale e statale, sospettati di rapporti coi cartelli del narcotraffico.

sabato 4 ottobre 2008

La Notte del Messico

Il 2 ottobre 1968 l'esercito aprì il fuoco contro una manifestazione in Piazza delle Tre Culture. Fu una strage, di cui ancora oggi si ignora il numero delle vittime. Ma le Olimpiadi erano vicine, e il mondo si girò dall'altra parte TLATELOLCO, 40 ANNI FA


CITTÀ DEL MESSICO
Era il 2 ottobre 1968. Il mítin era convocato per le cinque del pomeriggio nella Plaza de las Tres Culturas a Tlatelolco. Si aspettavano anche rappresentanti di lavoratori e operai in lotta, che avrebbero dichiarato il loro appoggio al movimento studentesco. I delegati del Consejo nacional de huelga parlavano dalla balconata del terzo piano dell'edificio Chihuahua, dove c'erano microfoni e altoparlanti. Fra dieci e ventimila persone si stavano radunando nella piazza per ascoltare gli interventi dei delegati delle varie scuole e facoltà: El dos de octubre llegamos/ todos pacíficamente/ a un mítin a Tlatelolco/ quince mil en la corriente. Negli ultimi due mesi gli scontri con la polizia erano stati all'ordine del giorno. Il movimento aveva subito i colpi di una repressione violenta che includeva desapariciones , pestaggi e torture e si intensificava con l'avvicinarsi dei Giochi. Mancavano solo dieci giorni all'inizio della XIX Olimpiade e il Messico era l'anfitrione, primo paese del terzo mondo a cui si concedeva l'onore. Il presidente Díaz Ordaz (1964-1970) era convinto che quello era il biglietto per il primo mondo e non aveva badato a spese, non avrebbe permesso che questi studenti, agitati da provocatori comunisti e con la testa montata dall'esempio parigino, gli guastassero la festa. Il piano aveva tutta la rozza sofisticazione delle «operazioni» della Cia, attivissima in quei giorni in Messico: la piazza piena di manifestanti verrà accerchiata dall'esercito, un corpo speciale - il batallón Olimpia , creato apposta per le Olimpiadi - infiltrato in borghese fra la gente, comincerà a sparare in direzione dei soldati provocandone la reazione armata sulla folla. Ancora oggi non si conosce il numero preciso dei caduti nella piazza di Tlatelolco: una delle stime più credibili, del Guardian , supera i trecento. Molti di più della ventina di morti dichiarati dalle prime versioni ufficiali. I grandi media si nascosero. Alcuni corrispondenti - fra cui la Fallaci, ferita nella sparatoria - trasmisero la notizia, pur ignorando radici e conseguenze di quella strage di stato, ma l'immagine di quell'Olimpiade rimase il pugno chiuso delle black panthers Tommie Smith e John Carlos, e non i trecento corpi di innocenti, alcuni dei quali bambini, gonfiati dalla pioggia e portati via di notte su camion dell'esercito come sacchi d'immondizia. I responsabili della strage del 2 ottobre 1968 nella plaza de las Tres Culturas - così chiamata perché ospita vestigia preispaniche, una chiesa coloniale e una serie di edifici moderni - sono stati chiari fin dall'inizio. Il regime autocratico di quel periodo - il Pri, il partito-stato, allra al potere da quasi 40 anni - seguiva la regola del «non si muove foglia che il presidente non voglia». E con il presidente Díaz Ordaz, l'esecutore non poteva essere che il suo ministro degli interni, Luis Echeverría �?lvarez, che nel 1970 gli sarebbe succeduto alla presidenza. Fu lo stesso Gustavo Díaz Ordaz ad assumersi «la responsabilità storica» dell'accaduto prima di lasciare la presidenza, certo che l'«accaduto» non sarebbe mai emerso in tutta la sua crudezza di freddo piano omicida. Avrà creduto davvero, Díaz Ordaz, nella congiura comunista per sabotargli le Olimpiadi? Avrà pensato che con le migliaia di arresti che ordinò dopo la strage sventava una minaccia al suo governo? O era solo una forma, come dice la scrittrice Elena Poniatowska, «di insegnare l'educazione ai figli ammazzandoli a seggiolate»? La ricostruzione dell'evento più traumatico del secondo Novecento messicano è stata frutto di un lavoro collettivo, iniziato proprio nel 1968, subito dopo il massacro, dalla stessa Poniatowska. La noche de Tlatelolco , che raccoglie le voci di più di 300 sopravvisuti al massacro, è un'opera corale che rivive non solo un avvenimento, ma un intero contesto, un'epoca. Il libro, che riporta molte testimonianze di studenti raccolte in carcere nei mesi successivi, divenne da subito un'opera di culto. Lo stesso presidente Echeverría - supremo cinismo! - volle premiarlo nel 1971: Poniatowska rifiutò il premio, domandando chi sarebbe andato a premiare i morti. Nei decenni successivi, la ricostruzione dei fatti di Tlatelolco e del loro contesto non ha smesso di arricchirsi. Giá nel 1998 un'apposita Comisión de la verdad , presieduta dallo scrittore Paco Ignacio Taibo II, aveva chiarito la dinamica dei fatti e chi partecipò all'azione. L'ultimo pezzo del puzzle lo fornirono delle foto recapitate anonimamente nel 2002 a Sanjuana Martinez, corrispondente a Madrid di una rivista messicana, in cui si documentava con tutta chiarezza l'esistenza dei famosi guantes blancos , i militari in borghese utilizzati per scatenare il massacro. Ma se si è fatta luce su quell'indignante episodio di disumanità del potere, non altrettanto si può dire per la giustizia. I tentativi di condannare l'ex presidente Luis Echeverría non hanno mai superato il livello degli arresti domiciliari. A quell'ultraottuagenario, che durante la sua presidenza (1970-1976) perpetrò un'altra strage di studenti - quella del Corpus Domini del 1971 - pur avendo fama di uomo di sinistra, deve essere sembrata una terribile umiliazione sentirsi gridare «assassino» dagli studenti di allora, riuniti nel Comité 68 e decisi a non far dimenticare un passato doloroso. Quando l'elettorato messicano provò il breve brivido dell'alternanza e il presidente Fox, a nome dell'imprenditoria cattolica di destra, conquistò la presidenza nel 2000, il nuovo governo promise di fare i conti con il passato e creò la «Fiscalia especial para movimientos sociales y políticos del pasado», che avrebbe dovuto fare chiarezza e giustizia non solo sulla strage di Tlatelolco, ma sull'intera guerra sucia , il processo di eliminazione fisica di guerriglieri e oppositori fra gli anni '60 e '80. Le speranze risvegliate dalla nomina del procuratore Carrillo Prieto, una cui parente era desaparecida in quegli anni, si sgonfiarono con la fine del sessennio di Fox, quando la Fiscalia fu smantellata senza alcun risultato di rilievo. Oggi, i ventenni di allora commemorano i 40 anni dal 2 ottobre 1968, una data che «no se olvida» non si dimentica. Quei sessantottini gioiosi, che pretendevano di cambiare il mondo con volantinaggi e occupazioni, sono oggi maturi sessantenni, ognuno con una sua storia ma uniti da un passato comune che spesso include qualche anno di galera. Sanno di avere scritto una pagina di liberazione che avrebbe meritato risposta migliore di quella sferrata dallo Stato. Oggi, quarant'anni dopo, quando non si è ancora fatta giustizia per quelle atrocità e un governo agente degli interessi multinazionali minaccia di usare i militari contro le proteste popolari e i movimenti sociali, la ferita di Tlatelolco non si è ancora rimarginata.
Gianni Proiettis da "Il Manifesto" del 3 Ottobre 2008

domenica 28 settembre 2008

La fame non attende

È cominciata in Messico lo scorso mese di luglio la seconda tappa della Campagna Nazionale «Sin maiz no hay pais, el hambre no espera», convocata e promossa da una vasta rete di almeno cinquecento organizzazioni di produttori e contadini e poi collettivi, associazioni, intellettuali e membri del mondo dello spettacolo. La Campagna è nata nel 2007 con l'obiettivo di salvare il mais e il fagiolo messicano dalla «fame» di soldi del mercato internazionale degli alimenti. Una risposta concreta alla caduta definitiva di ogni dazio doganale prevista dal Trattato di libero commercio (Nafta) con Stati uniti e Canada, entrato in vigore nel lontano 1994. Il mondo contadino, promotore principale dell'iniziativa, si pone anche l'obiettivo di fermare la politica di svendita della terra messicana e di rimettere al centro della politica del paese l'agricoltura, opponendosi all'oblio a cui il governo federale sembra averla destinata. Quest'anno però la campagna si rilancia in un contesto decisamente più complesso. La crisi alimentare globale ha colpito anche il Messico e ha aiutato gli attivisti contadini e rurali a porre al centro del dibattito il tema della produzione agricola, in particolare la situazione dei piccoli e medi produttori, stritolati dai grandi monopoli agricoli - soprattutto nordamericani. L'aumento dei prezzi degli alimenti in Messico si è intrecciato a un peculiare fenomeno di speculazione: negli ultimi 18 mesi, i prezzi medi degli alimenti sono aumentati del 70%. Ma la cosa peggiore è che tale situazione è stata negata da parte del governo federale con sistematica puntualità ogni volta che qualcuno osasse porre in dubbio i dati ufficiali sull'inflazione - indicata attorno del 7%. La realtà però è difficile da nascondere: la dipendenza alimentare dalle importazioni è aumentata vertiginosamente, obbligando migliaia di contadini e piccoli produttori a chiudere bottega ed emigrare verso le città o verso gli Stati uniti. In un paese con quasi sessanta milioni di persone che vivono ai limiti della povertà, la crisi ha portato venti milioni di messicani a soffrire di anemia e denutrizione. In questo contesto, il tema della sovranità alimentare assume un ruolo centrale per una soluzione del problema. Con l'80% della terra ancora in mano ai piccoli e medi produttori, il Messico, suggeriscono gli attivisti della Campagna, deve riconoscere loro il contributo, il potenziale e le virtù ecologiche delle piccole e medie unità produttive agricole, capaci di soddisfare le esigenze alimentari dei messicani. Forse le proposte più interessanti e innovatrici della Campagna «Sin maiz no hay pais, el hambre no espera» sono nella volontà di valorizzare le culture e le biodiversità che costruiscono il Messico. Si legge nel manifesto: «La ricchezza genetica del Messico, in particolare per quanto riguarda il mais, lo fa essere una grande riserva di varietà che si sono adattate al cambio climatico». E infatti, che il paese del mais, dove vivono «gli uomini e le donne di mais», importi oltre la metà del fabbisogno di questo cereale sembra assurdo. Sì all'autosufficienza alimentare dunque e no al transgenico che «non risolve il problema della fame», così come no alla produzione di agrocombustibili, «una beffa per chi ha fame». Infine ma non meno importante, in un paese come il Messico che è il primo consumatore di bibite gasate al mondo e che vanta, nonostante tutto, 35 milioni di obesi, la battaglia è anche per la qualità del cibo: «È necessario riconoscere che l'attuale modello ci sta portando verso un'alimentazione che ci ingrassa senza nutrirci».
Matteo Dean da "Il manifesto" del 23 Settembre 2008

UNAM: gruppi violenti finanziati da partiti politici


L’obbiettivo di questi gruppi che fecero la loro comparsa negli anni 30 è di evitare la formazione di gruppi studenteschi.

El Bujadras, El Uva, El Gret, El He-Man, La metro, El blue, la Pene, El Demon sono i più conosciuti tra gli universitari. Dietro a questi nomi esistono storie di atti vandalici che abitualmente rimangono impuniti. Agiscono con violenza all’Universidad Nacional Autonoma de Mexico (UNAM) e storicamente, a quanto pare, sono appoggiati e protetti dalla classe dirigente al punto che molti di loro formano parte delle strutture direttive di alcuni partiti politici.
Un caso che testimonia questo nesso è quello di Alfredo Margarito Benitez Gonzalez, El He-Man, attuale membro del Partido Socialdemocrata (PSD), conosciuto dalle autorità e attivisti universitari come uno dei fondatori della Federation de Estudiantes del Sur (FES), gruppo porril che nacque nel 2006 dalla scissione della Llamada Alianza Universitaria, alla quale sono legati diversi gruppi che operano all’interno dell’UNAM.
I porriles, grave problema dell’istituzione pubblica dell’educazione media e superiore, sono organizzazioni il cui obbiettivo è quello di scoraggiare, tramite la violenza, la formazione di organizzazioni studentesche.
Non solo l’UNAM si trova a dover affrontare questo fenomeno. Istituzioni come il Politécnico Nacional, il Collegio de Bachilleres, il Collegio Nacional de Educaciòn Profesional Técnica (conalep), i centri di Bachillerato Tecnologico, Industrial e de Servicios (Cebetis) e Estudios Tecnológicos, Industriales y de Servicios (Cetis) e altre scuole private vedono la presenza di questi gruppi.
Hugo Sánchez Gudiño, investigatore della Facultad de Estudios Superiores Aragón e autore del libro Génesis: desarrollo y consolidación de los grupos estudiantiles de choque en la UNAM (1930-1990), definisce i porriles gruppi che per denaro «sono capaci di attuare atti molto violenti: la loro principale preda sono gli studenti universitari». I dirigenti dell’UNAM segnalano che i porriles « sono impiegati per fini differenti, è possibile vederli marciare tanto in proteste politiche che in eventi sportivi. Sono un buon affare per coloro che li appoggiano e che si servono di loro per ottenere benefici». Gli studiosi riferiscono che l’origine del porrismo è datata agli anni ’30, con i tifosi del futbol americano studentesco che si trasformarono in organizzazioni a delinquere con la spinta delle autorità politiche e universitarie.
Così le “truppe” di porriles avanzano, delinquono, aggrediscono, talonean (furto di gruppo) e addirittura picchiano chi cerca di ostacolarli. Fino a uccidere. Tutto per raggiungere i loro obbiettivi.
Spesso irrompono di sorpresa in alcune scuole per aggredire gli studenti, a volte con pistole.
I dirigenti universitari raccontano come utilizzino le feste che sono soliti organizzare nelle grandi osterie, fra fiumi di birra, per attirare le “nuove leve”. Non solo. Hanno creato anche numerosi siti internet dentro i quali minacciano i propri rivali, comunicando, oltre alle feste in programma, quali saranno gli attacchi seguenti.
I dirigenti universitari precisano la differenza tra i porriles e gli attivisti: questi ultimi sono studenti con un obbiettivo sociale, che cercano di migliorare l’università, mentre i porriles «ricevono ordini, agiscono con violenza e senza finalità socialmente utili».
La jornada 28/09/2008

Porriles: attacchi simultanei alla UNAM legati al fascista Narro per schiacciare il movimento studentesco

Venerdì 12 settembre, per tutta la giornata, gli studenti universitari sono stati nuovamente oggetto di numerose aggressioni impunite da parte di gruppi porriles e in varie sedi della UNAM, soprattutto nella zona della Ciudad Universitaria. Per più di 10 ore questi gruppi di neofascisti hanno lanciato bombe carta e pietre contro decine di studenti, lavoratori e insegnanti in una azione congiunta che ha causato molti feriti, alcuni dei quali molto gravi, come nel caso di uno studente in coma. Secondo le informazioni raccolte finora questo assalto ha avuto inizio presso la Facoltà di Architettura dove sono state lanciate le prime bombe carta. Successivamente si sono spostati nella spianata di Dean's dove hanno iniziato a sferrare colpi di manganelli contro chiunque passasse da quelle parti. Attaccate anche la facoltà di Filosofia, di Economia e di Ingegneria. Erano 150 gli attivisti delle cosidette lucertole dell'azione preparatoria 5. Più tardi, intorno alle ore 19:00, il loro attacco si è concetrato sull’Auditorium Che Guevara con bastoni, pietre e petardi che hanno ferito molte persone. Nel tragitto hanno picchiato anche i venditori ambulanti e lanciato pietre contro i passanti che, una volta a terra, sono stati derubati. Diversi i feriti ricoverati in ospedale a causa di lesioni d’arma da taglio e per scoppi di bombe carta. Nel tentativo di proteggersi, duecento studenti si sono rifugiati nella biblioteca centrale del dipartimento di filosofia ma sono stati cacciati dei responsabili d’ateneo al momento della chiusura della biblioteca: una volta fuori questi sono stati picchiati, riportando ferite anche gravi. Solo nel tardo pomeriggio è arrivata la polizia che ha sorvolato in elicotterò l’università e riportato l’ordine nella zona con scontri vicino alla feramta della metropolitana di Copilco. Diversi gli arresti e i fermi. Si sta rivelando l’esistenza di un piano dettagliato senza precedenti come dimostrano le azioni congiunte che hanno avuto come scenario, oltre il campus universitario, altre scuole della città. Ormai è chiaro come questi attacchi abbiano come regia quella della autorità universitarie, in primis del Rettore, che hanno storicamente rivestito il ruolo di veri e propri protettori di questi gruppi con la finalità di placare e contenere il dissenso politico all’interno del mondo studentesco.





Estratto di un articolo pubblicato sul sito http://mexico.indymedia.org

mercoledì 24 settembre 2008

Scatole MESSICANE: contro la crisi economica 6 milioni di catapecchie

Giuseppe De Marzo da CITTA' DEL MESSICO

Doña Luz guarda la foto di Zapata che ha appeso alla parete con il nastro adesivo, dopo che il chiodo che la reggeva è venuto via portando con sè un bel pezzo di muro. É preoccupata perchè sa già che a breve dovrà lasciare i 30 metri quadri scarsi di questa casetta cadente che - aveva pensato in qualche momento ottimista e ormai lontano - poteva essere un buon investimanto, un luogo dove appendere il cappello e invecchiare sereni.
Doña Luz è una delle migliaia di persone che hanno ceduto alle promesse dell'urbanizzazione «mordi e fuggi» alla messicana, indebitandosi fino al collo per comprare una di queste colorate e inquietanti scatole di cartongesso che i costruttori si ostinano a chiamare case. Ma da subito, da quando tre anni fa è venuta a vivere nell'insediamento alle porte di Cuernavaca, doña Luz ha capito che qualcosa non andava. La casa era minuscola. Lei e l'anziano marito, un maestro in pensione, con la figlia e due nipoti non riuscivano neppure a sedersi tutti assieme attorno al tavolo. I muri dell'unica camera da letto si sono riempiti di umidità sin da subito, e sulle quattro pareti sono comparse immediatamente crepe longitudinali. Il degrado del complesso, privo di qualsiasi spazio sociale o di servizio, è stato rapidissimo. Molti vicini hanno già abbandonato le piccole case, rendendo l'insediamento spettrale come un villaggio fantasma. «E' difficile muoversi di qui», si lamenta don Francisco, uno dei pochi rimasti. «Non c'è neppure un negozietto dove comprare il minimo indispensabile. Non c'è una piazza per ritrovarsi, né collegamenti per i centri abitati vicini. Prima vivevamo dei prodotti della terra che noi stessi coltivavamo - dice con gli occhi lucidi - ma ce l'hanno tolta, la nostra terra, in cambio di un tozzo di pane e della promessa di una casa nuova. E questo rudere è quello che ci resta. Abbiamo perso tutto».
Le chiamano casitas Auschwitz , sono l'ultima frontiera del capitalismo e della filiera dell'urbanizzazione selvaggia in Messico. Milioni di case di 32 metri quadrati in cui rinchiudere decine di milioni di famiglie. La speculazione incontrollata sulla terra, la gestione del suolo urbano e delle conche idrografiche affidata alle grandi imprese immobiliari, industriali e commerciali per la costruzione di milioni di cosiddette «case Auschwitz» rappresentano l'ultimo sviluppo dell'urbanizzazione e un grandissimo affare economico. Sia l'attuale presidente Felipe Calderon che il suo predecessore Vicente Fox, entrambi del Pan, partito di estrema destra, hanno dimostrato grande dinamismo nel mettere in piedi in tutto il paese programmi di costruzione di cittá completamente nuove e moderne.
Per il bicentenario dell'indipendenza messicana nel 2012 si pensa di creare nuove cittá nelle contee di Atlacomulco, Huehuetoca, Zumpango, Tecámac, Jilotepec, Almoyola de Juarez, nello Stato di Mexico. Sono state annunciate sei milioni di nuove case che saranno gestite completamente da privati, ai quali viene anche affidata la gestione di tutti i servizi annessi, con la conseguente distruzione ambientale che si aggiungerà a quella giá in corso. Il solo Messico produce da solo piú case dell'Argentina, del Brasile, del Cile, del Venezuela e della Colombia. Vista peró la crisi economica e la perdita di potere d'acquisto dovuta all'aumento dei prezzi, difficilmente la classe media potrá terminare di pagare i mutui delle case, cosí come é giá avvenuto negli Stati Uniti dove la crisi dei subprime (i mutui concessi a fronte di poche garanzie) ha travolto decine di migliaia di proprietari. D'altro canto l'aumento della tensione sociale provocato da un'ingiusta distribuzione delle abitazioni viene affrontato dal governo con un aumento della repressione e attraverso dei sussidi garantiti alle multinazionali e alle banche del settore immobiliare per consentire l'acquisto alle fasce piú povere delle cosiddette «case Auschwitz».
Nello stesso tempo vengono criminalizzati tutti quegli insediamenti irregolari e popolari che fino a poco tempo fa erano tollerati e considerati materia di negoziato politica con i gruppi piú emarginati, ai quali era sostanzialmente consentito sopravvivere in abitazioni di fortuna. Un altro degli aspetti piú preoccupanti sul piano sociale e ambientale del processo di urbanizzazione selvaggia é quello della frode economica. Le abitazioni saranno vendute con mutui di trenta anni, con tassi tra l'8% e il 12%, a fasce di popolazioni di medio e basso reddito all'interno di una cornice urbana degradata e con materiali di pessima qualitá, destinati a rovinarsi nel giro di cinque o massimo dieci anni. Le stesse unitá abitative in realtà non sono non dotate di servizi di base e vengono costruite in luoghi in cui mancano completamente scuole, impianti di trattamento delle acque, centri culturali o sportivi, persino chiese. Case e complessi abitativi costruiti e disegnati senza tener conto di alcuna necessitá di convivenza collettiva dei propri abitanti o delle loro necessitá di lavoro, generando spazi urbani in cui si concentrano disoccupazione, frustrazione, insicurezza e violenza. Un'enorme speculazione economica che distrugge le riserve di territoro intorno alle cittá, dove i terreni vengono comprati a prezzi bassissimi o addirittura espropriati per essere poi rivenduti dopo aver costruito unitá abitative che arrivano sino a trenta o quarantamila case per volta.
Dopo i primi anni di frodi, i cittadini iniziano a organizzarsi contro le imprese costruttrici, portando avanti proteste, mobilitazioni, blocchi stradali. Imprese come Ara, Geo, Urbi, Galaxy, Homex-Beta, Urbasol tra le altre, sono oggetto di nuove forme di lotte socio-ambientali che nonostante siano ancora disperse e frammentate, iniziano a essere sempre piú diffuse. Movimenti che hanno generato in alcuni casi vere e proprie insurrezioni dopo che le «nuove» case avevano dimostrato in pochissimi anni di non reggere nemmeno alle piogge o di essere fatte di materiali scadenti o in alcuni casi tossici. É il caso delle abitazioni di Cerro de Xico, Las Americas, San Buenaventura de Ixtapaluca, Tecamac, dei tredicini paesini nel sud dello stato di Morelos e nel Valle de Toluca (stato di Mexico) dove 500mila indigeni si sono ribellati alla costruzione di migliaia di altre «casette Auschwitz». Una nuova geografia della resistenza all'interno della dinamica messa in moto dall'urbanizzazione selvaggia.
Ormai sono circa cento le cittá che l'edilizia selvaggia ha seriamente compromesso in termini ambientali, e il prossimo 11 ottobre si daranno appuntamento a Cittá del Messico per dar vita a una Assemblea permanente delle comunità. Cosí come nei mesi scorsi a Nextlalpan (città nello stato di Mexico dal nome appropriato in tema di distruzione ambientale: in nahuatl significa «sopra un suolo di cenere») i gruppi del Movimento Urbano Popolare si sono incontrati per coordinare le lotte contro la costruzione delle cittá del bicentenario, veri e propri non-luoghi disegnati intorno ai centri commerciali con il solo scopo di incrementare i consumi e beneficiare le industrie costruttrici. La lotta per la casa e per i servizi di base, cosí come per il diritto umano all'abitare, costituiscono nella crisi verticale generata dall'urbanizzazione selvaggia una forma di resistenza organica e uno spazio in cui appaiono sempre piú possibili le alleanze tra indigeni e contadini, che nelle campagne messicane continuano a difendere la Terra.
Il Manifesto 24/09/2008

venerdì 19 settembre 2008

Messico: Il nuovo Mln, appello a zapatisti e sinistre.

Giuseppe De Marzo

Un cartello di quaranta movimenti.

CITTA' DEL MESSICO: Nell'immensa sala de Armas della Ciudad Deportiva Magdalena Mixhuca di Città del Messico, circa mille e cinquecento delegati di oltre 40 organizzazioni, tra movimenti sociali, comitati, sindacati e forze politiche si sono dati appuntamento per celebrare - con un giorno di anticipo e alla loro maniera - il «Grito» di indipendenza che 198 anni fa liberò il Messico dall'invasore spagnolo. Questa volta l'obiettivo è liberarsi dall'occupazione di un governo di destra e dal suo modello capitalista, che in Messico affonda gli artigli più che in altri luoghi dell'America Latina. Per lanciare il proprio grido di indipendenza, una quarantina di movimenti messicani hanno deciso di costituire l'Mln: il Movimiento de liberacion nacional . Il Messico è una polveriera: ingovernabilità senza precedenti, clima di violenza che produce circa trenta morti al giorno, malcontento popolare diffuso. Dall'inizio dell'anno al 12 settembre (il giorno prima del congresso fondativo del Mln: in pochi giorni i morti si ammucchiano, solo ieri sette vittime in un attacco narcoterrorista con granate sulla folla a a Morelia, nel centro del paese) sono stati 3.202 gli omicidi, un aumento dell'80% rispetto all'anno scorso. Mentre sono più di un milione e mezzo i messicani che hanno lasciato il paese negli ultimi due anni, un tasso più che doppio rispetto al passato. Tasso di crescita economica inferiore a Haiti, aumento della povertà e disoccupazione fuori controllo: in questo contesto l'Mln si pone come obiettivo la costruzione di un nuovo progetto di nazione attraverso la mobilitazione permanente. Un'organizzazione di organizzazioni che preservando l'autonomia di ogni gruppo vuole articolare a livello nazionale le miriadi di lotte sociali e politiche del paese, puntando a sfidare il governo di Felipe Calderon, in sella da due anni grazie a una frode elettorale ai danni del centrosinistra di Andres Manuel Lopez Obrador. Nel salone circondato da gigantografie di alcuni dei personaggi più rappresentativi per la storia latinoamericana - tra i quali Emiliano Zapata, Pancho Villa, Che Guevara, Camilo Torres - è un continuo vociare e susseguirsi sul palco principale. Ci sono i sindacati dei maestri di Morelos, Zacatecas, Distrito federal (la capitale), Aguascalientes, San Luis Potosì, Queretaro, Durango, Guerrero e quelli delle storiche «seccion 18» di Michoacan e «seccion 22» di Oaxaca, organizzazioni che stanno paralizzando i loro stati con una mobilitazione permanente di più di 160mila maestri contro la riforma dell'educazione. C'è il sindacato più vecchio del Messico, i tranviari, il movimento nazionale organizzato «Aqui Estamos» con le sue decine di cooperative, l'unione dei giuristi, l'unione popolare dei venditori ambulanti «28 ottobre», le organizzazioni contadine e diverse comunità indigene del Chiapas e di San Luis Potosì, i movimenti urbani «villisti», le donne di San Salvador Atenco e molti altri. Ci sono anche i partiti della sinistra cosiddetta rivoluzionaria: il Partito comunista m-l, il Partito socialista, la Red Izquierda revolucionaria... La «presa» sul paese sarà verificata in breve tempo: per ottobre il neonato Mln ha convocato uno «sciopero patriottico». In settembre si discuteranno infatti alcune delle riforme strutturali che il governo vorrebbe imporre. Innanzitutto la questione della privatizzazione del petrolio e dell'impresa di stato Pemex, fiore all'occhiello non solo dell'economia nazionale ma dell'identità del paese. Fu proprio Lazaro Cardenas, il generale che fu presidente dal '32 al '38 (e che diede vita, tra gli altri, al primo Movimiento de liberacion nacional ) a nazionalizzare il petrolio, sancendolo nella Costituzione. La gravissima crisi economica che investe il Messico ha avuto come conseguenza un'offensiva da parte delle destre, delle multinazionali e del governo statunitense che punta a ristrutturare il paese attraverso riforme senza precedenti. L'obiettivo è privatizzare tutto il possibile: alla privatizzazione del petrolio seguono infatti la riforma del sistema educativo e quella del lavoro. La prima si chiama «Alleanza per la qualità dell'educazione» e punta a smontare definitivamente l'istruzione pubblica. La seconda è la riforma dell'Issste - l'istituto di sicurezza e servizi sociali per i lavoratori dello stato - già approvata nel marzo 2007, che tra le altre cose cancella di fatto le pensioni per 18 milioni di lavoratori, elimina i contratti collettivi e la giornata di 8 ore lavorative, elevando l'orario di lavoro a 72 ore settimanali. A questo si aggiungono la riforma giudiziaria, l'aumento delle spese per la militarizzazione e l'incorporazione al Aspan - il piano strategico militare di difesa dell'America del nord -, il consolidamento degli accordi commerciali con gli Usa e la firma del Plan Merida, che legalizza la partecipazione militare e di polizia degli Stati uniti nel paese. La crisi sta generando in Messico un'ondata di proteste e di mobilitazioni che alcuni paragonano all'epoca della Rivoluzione messicana del 1910. E sono in molti a scommettere che difficilmente Calderon terminerà il suo mandato nel 2012. Sul suo futuro inciderà sensibilmente anche l'esito delle prossime elezioni negli Stati uniti, visti i legami della destra messicana con il clan Bush e con i petrolieri statunitensi al governo «Dare vita ad una seconda indipendenza», è questo l'obiettivo politico dell'Mln che dal suo congresso costituente lancia un appello di unità ai due protagonisti dell'opposizione messicana, la Convenzione nazionale democratica - il movimento spontaneo che riconosce come legittimo presidente Obrador - e l'Ezln, l'Esercito zapatista di liberazione nazionale. Il leader del centrosinistra Obrador, forte della grande capacità di convocare in piazza centinaia di migliaia di cittadini (molto meglio lui del del suo screditato partito di riferimento, il Prd), sembra procedere per la propria strada, scartando per ora un'alleanza con i movimenti sociali. Alla finestra, ma non ostile, l'Ezln.
Il Manifesto 19/09/2008