mercoledì 24 settembre 2008

Scatole MESSICANE: contro la crisi economica 6 milioni di catapecchie

Giuseppe De Marzo da CITTA' DEL MESSICO

Doña Luz guarda la foto di Zapata che ha appeso alla parete con il nastro adesivo, dopo che il chiodo che la reggeva è venuto via portando con sè un bel pezzo di muro. É preoccupata perchè sa già che a breve dovrà lasciare i 30 metri quadri scarsi di questa casetta cadente che - aveva pensato in qualche momento ottimista e ormai lontano - poteva essere un buon investimanto, un luogo dove appendere il cappello e invecchiare sereni.
Doña Luz è una delle migliaia di persone che hanno ceduto alle promesse dell'urbanizzazione «mordi e fuggi» alla messicana, indebitandosi fino al collo per comprare una di queste colorate e inquietanti scatole di cartongesso che i costruttori si ostinano a chiamare case. Ma da subito, da quando tre anni fa è venuta a vivere nell'insediamento alle porte di Cuernavaca, doña Luz ha capito che qualcosa non andava. La casa era minuscola. Lei e l'anziano marito, un maestro in pensione, con la figlia e due nipoti non riuscivano neppure a sedersi tutti assieme attorno al tavolo. I muri dell'unica camera da letto si sono riempiti di umidità sin da subito, e sulle quattro pareti sono comparse immediatamente crepe longitudinali. Il degrado del complesso, privo di qualsiasi spazio sociale o di servizio, è stato rapidissimo. Molti vicini hanno già abbandonato le piccole case, rendendo l'insediamento spettrale come un villaggio fantasma. «E' difficile muoversi di qui», si lamenta don Francisco, uno dei pochi rimasti. «Non c'è neppure un negozietto dove comprare il minimo indispensabile. Non c'è una piazza per ritrovarsi, né collegamenti per i centri abitati vicini. Prima vivevamo dei prodotti della terra che noi stessi coltivavamo - dice con gli occhi lucidi - ma ce l'hanno tolta, la nostra terra, in cambio di un tozzo di pane e della promessa di una casa nuova. E questo rudere è quello che ci resta. Abbiamo perso tutto».
Le chiamano casitas Auschwitz , sono l'ultima frontiera del capitalismo e della filiera dell'urbanizzazione selvaggia in Messico. Milioni di case di 32 metri quadrati in cui rinchiudere decine di milioni di famiglie. La speculazione incontrollata sulla terra, la gestione del suolo urbano e delle conche idrografiche affidata alle grandi imprese immobiliari, industriali e commerciali per la costruzione di milioni di cosiddette «case Auschwitz» rappresentano l'ultimo sviluppo dell'urbanizzazione e un grandissimo affare economico. Sia l'attuale presidente Felipe Calderon che il suo predecessore Vicente Fox, entrambi del Pan, partito di estrema destra, hanno dimostrato grande dinamismo nel mettere in piedi in tutto il paese programmi di costruzione di cittá completamente nuove e moderne.
Per il bicentenario dell'indipendenza messicana nel 2012 si pensa di creare nuove cittá nelle contee di Atlacomulco, Huehuetoca, Zumpango, Tecámac, Jilotepec, Almoyola de Juarez, nello Stato di Mexico. Sono state annunciate sei milioni di nuove case che saranno gestite completamente da privati, ai quali viene anche affidata la gestione di tutti i servizi annessi, con la conseguente distruzione ambientale che si aggiungerà a quella giá in corso. Il solo Messico produce da solo piú case dell'Argentina, del Brasile, del Cile, del Venezuela e della Colombia. Vista peró la crisi economica e la perdita di potere d'acquisto dovuta all'aumento dei prezzi, difficilmente la classe media potrá terminare di pagare i mutui delle case, cosí come é giá avvenuto negli Stati Uniti dove la crisi dei subprime (i mutui concessi a fronte di poche garanzie) ha travolto decine di migliaia di proprietari. D'altro canto l'aumento della tensione sociale provocato da un'ingiusta distribuzione delle abitazioni viene affrontato dal governo con un aumento della repressione e attraverso dei sussidi garantiti alle multinazionali e alle banche del settore immobiliare per consentire l'acquisto alle fasce piú povere delle cosiddette «case Auschwitz».
Nello stesso tempo vengono criminalizzati tutti quegli insediamenti irregolari e popolari che fino a poco tempo fa erano tollerati e considerati materia di negoziato politica con i gruppi piú emarginati, ai quali era sostanzialmente consentito sopravvivere in abitazioni di fortuna. Un altro degli aspetti piú preoccupanti sul piano sociale e ambientale del processo di urbanizzazione selvaggia é quello della frode economica. Le abitazioni saranno vendute con mutui di trenta anni, con tassi tra l'8% e il 12%, a fasce di popolazioni di medio e basso reddito all'interno di una cornice urbana degradata e con materiali di pessima qualitá, destinati a rovinarsi nel giro di cinque o massimo dieci anni. Le stesse unitá abitative in realtà non sono non dotate di servizi di base e vengono costruite in luoghi in cui mancano completamente scuole, impianti di trattamento delle acque, centri culturali o sportivi, persino chiese. Case e complessi abitativi costruiti e disegnati senza tener conto di alcuna necessitá di convivenza collettiva dei propri abitanti o delle loro necessitá di lavoro, generando spazi urbani in cui si concentrano disoccupazione, frustrazione, insicurezza e violenza. Un'enorme speculazione economica che distrugge le riserve di territoro intorno alle cittá, dove i terreni vengono comprati a prezzi bassissimi o addirittura espropriati per essere poi rivenduti dopo aver costruito unitá abitative che arrivano sino a trenta o quarantamila case per volta.
Dopo i primi anni di frodi, i cittadini iniziano a organizzarsi contro le imprese costruttrici, portando avanti proteste, mobilitazioni, blocchi stradali. Imprese come Ara, Geo, Urbi, Galaxy, Homex-Beta, Urbasol tra le altre, sono oggetto di nuove forme di lotte socio-ambientali che nonostante siano ancora disperse e frammentate, iniziano a essere sempre piú diffuse. Movimenti che hanno generato in alcuni casi vere e proprie insurrezioni dopo che le «nuove» case avevano dimostrato in pochissimi anni di non reggere nemmeno alle piogge o di essere fatte di materiali scadenti o in alcuni casi tossici. É il caso delle abitazioni di Cerro de Xico, Las Americas, San Buenaventura de Ixtapaluca, Tecamac, dei tredicini paesini nel sud dello stato di Morelos e nel Valle de Toluca (stato di Mexico) dove 500mila indigeni si sono ribellati alla costruzione di migliaia di altre «casette Auschwitz». Una nuova geografia della resistenza all'interno della dinamica messa in moto dall'urbanizzazione selvaggia.
Ormai sono circa cento le cittá che l'edilizia selvaggia ha seriamente compromesso in termini ambientali, e il prossimo 11 ottobre si daranno appuntamento a Cittá del Messico per dar vita a una Assemblea permanente delle comunità. Cosí come nei mesi scorsi a Nextlalpan (città nello stato di Mexico dal nome appropriato in tema di distruzione ambientale: in nahuatl significa «sopra un suolo di cenere») i gruppi del Movimento Urbano Popolare si sono incontrati per coordinare le lotte contro la costruzione delle cittá del bicentenario, veri e propri non-luoghi disegnati intorno ai centri commerciali con il solo scopo di incrementare i consumi e beneficiare le industrie costruttrici. La lotta per la casa e per i servizi di base, cosí come per il diritto umano all'abitare, costituiscono nella crisi verticale generata dall'urbanizzazione selvaggia una forma di resistenza organica e uno spazio in cui appaiono sempre piú possibili le alleanze tra indigeni e contadini, che nelle campagne messicane continuano a difendere la Terra.
Il Manifesto 24/09/2008

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